lunedì 28 febbraio 2011

Morti nel Social Club

La morte è un argomento intramontabile nella cronaca cittadina come nelle scienze sociali. Le usanze e le conseguenze che riguardano la morte sono da sempre oggetto di grande interesse: dal cannibalismo mediatico (sterminata la bibliografica mediatica su Sara Scazzi, ad esempio) al cannibalismo ante-litteram (consiglio di leggere in proposito un bellissimo libro di Clastres Cronache di una tribù sull’endocannibalismo. (1)).
Il rapporto tra la morte e le sue rappresentazioni si evolve al ritmo al quale si evolvono le possibilità di rappresentarsi. Per rimanere nel filo del discorso intrapreso in questo blog, tra immagini e rappresentazioni del sé (2), vi riporto un articolo di Ferdinando Cotugno apparso su Vanity Fair del 02 marzo 2011, pag104: “CHI DI FACEBOOK FERISCE…

Ogni giorno «postiamo» pensieri, video e foto: ma che cosa succede alle tracce digitali di chi muore? E che ne sarà dei due milioni di utenti del network di Zuckerberg che quest’anno passeranno a miglior vita? Dai testamenti elettronici agli avatar, ecco come congedarsi dagli «amici» e guadagnarsi un’immortalità dignitosa. Almeno su Internet.

METTERE IL SIGILLO
Dei 600 milioni di utenti di Facebook, nel 2011 ne morirano 1,78 milioni (dai Entrustet): circa 3 al minuto. Il social network offre l’opportunità di «memorializzare» il profilo. Chi conosceva la persona, può mandare al sito una prova della sua scomparsa (basta anche un necrologio), perché la pagina venga sigillata: non si potrà più trovare su Google, nessuno si potrà più loggare, ma sarà a disposizione solo di «amici» e parenti.

FARE TESTAMENTO
Su Internet ci sono anche esecutori testamentari digitali: siti ai quali si consegna la copia di ogni contenuto digitale che si vuole tramandare dopo la morte. Un testamento fatto di foto, file, testi, e soprattutto password per l’email e il blog, che dopo la morte saranno consegnati all’erede digitale. (…)

CREARSI L’AVATAR.
Chi vuole esagerare, e crede nell’immortalità digitale, può costruirsi un sé digitale perpetuo su Virtual Eternity (…), sito che promette di creare un avatar che ti somiglia, che parla e ragiona come te, che tu puoi addestrare prima di morire e che rimane sul sito indefinitamente dopo la tua morte. Potrà chiacchierare, comunicare e interagire con chiunque abbia un attacco di nostalgia.”


Da dove cominciare… direi che fare testamento in modo digitale non rappresenta poi una grande novità. Diciamo che cambia solamente la forma, ma da sempre in cassette di sicurezza legate al nome di una Banca, si cerca di memorializzare la propria vita e di lasciare la cosiddetta eredità… che questa oggi sia fatta dalla mia faccia (FACE-BOOK) lo trovo ancora nel novero delle cose “normali”. Anche perché come abbiamo visto l’identità costruita su facebook è un bene prezioso, è la migliore che io possa avere, dal momento che è la mia rappresentazione di me, è quello che io ho scelto di mostrare nel racconto digitale della mia vita.
Ma a ben vedere anche l’avatar digitale non è una novità. Prima si facevano i figli. Questi, però, non sempre riescono ben programmati come si vorrebbe. Allora, perché correre il rischio mentre si può avere un clone che non possa deviare dal percorso che si è tracciato per lui?
Viene, però, da chiedersi: e i buchi della rete?
Sì, perché cose messe in rete cinque anni fa, ad esempio, possono non essere più rintracciabili, chi ci assicura che la nostra vita-digitale resti in ETERNITY, come vuole il nome?
La ricerca è sempre quella dell’immortalità. Nessuno vuol rassegnarsi all’idea di non esserci nel mondo, ma se non lasciamo eredi, se non facciamo figli, quanti amici ci potranno sopravvivere per cercarci nella nostra Virtual Eternity?
Perchè ci importa tanto di sopravvivere digitalmente?
Siamo tanto affezionati alle nostre immagini. Vogliamo che rimangano, che rimanga il video bello del nostro ballo in spiaggia, che questo diario videogestito sia pure, ancora, vivente quando noi non saremo più.
La domanda di fondo, quindi, rimane sempre la stessa. Anni di cambiamento, di nuove “mode”, di innovative dimensioni… Cambiano le tecnologie, ma la ricerca è la stessa che ha precedenti nella resurrezione cristiana, come nella sopravvivenza dell’anima… che quest’anima possa essere quanto più possibile addestrata a nostra immagine attraverso un avatar digitale, o che sia lasciata alla mercé di un beneamato padreterno, l’importante è che “immanentemente” resti.



(1) PARTE DELLA NONA LEZIONE DI ANDREA ADRUSINI
Pierre Clasters ha vissuto presso gli indiani Guayaki del Paraguay e dopo le prime resistenze ha scoperto che mangiavano carne umana. Il motivo? "E' dolcissima, meglio ancora della carne di maiale selvatico" (1980, p.231). In Polinesia, spiega Clastres, la mancanza di proteine può spiegare la pratica del cannibalismo alimentare. Ma per gli aché la carne rappresenta l'alimento principale, e pertanto non uccidevano per mangiare ma mangiavano semplicemente i loro morti (endocannibalismo). (...)
Tra gli aché tuttavia mangiare carne umana nasconde un profondo significato religioso, perché quest'atto rappresenta l'estrema onoranza che i vivi riservano ai morti. Trascurare di portare un po' di carne ai propri amici sarebbe considerata un'ingiuria gravissima, capace di scatenare delle ostilità. Tutti i componenti della tribù mangiano la carne del defunto, tranne i parenti più prossimi: non si vedrà mai un fratello mangiare la sorella,e se un padre mangiasse la figlia commetterebbe metaforicamente incesto. L'adiacenza del tabù alimentare con il divieto dell'incesto è quindi evidente. (…)
Se si chiede ai Guayaki perché sono cannibali essi non sanno rispondere: la spiegazione rimane nelle pieghe dell'inconscio. Una spiegazione forse risiede nel fatto che se i morti vengono semplicemente seppelliti, le loro anime (ianve) vogliono trascinare gli aché nel paese degli antenati: se i morti vengono mangiati, "ianve se ne va via svolazzando" (Clastres, 1980, p.239). Quindi il cannibalismo sarebbe una tecnica supplementare di difesa contro le anime dei morti. "Se i morti non vengono mangiati, arriva il baivwä, ci ammaliamo gravemente e moriamo" (Clastres, cit., p. 240). A questo si aggiunge anche la credenza nella reincarnazione ("sono l'anima di quel tale"). L'ultimo atto d'amore di una moglie è quello di dire al marito di mangiarla completamente, così non si ammalerà a causa del baivwä (malattia causata dallo spirito del defunto). L'ultimo atto d'amore del marito nei confronti della moglie è quello di esaudire il suo ultimo desiderio. Gli aché ritengono pertanto che la carne umana abbia un valore terapeutico (…).

(2) In particolare nell’ambito della Antropologia Visuale il rapporto tra immagini e morte è ben indagato da Francesco Faeta nel suo Imago Mortis.