sabato 29 dicembre 2012

FOLLIE

Follie mie, follie della rete...
Guardo il film "In time"(da vedere!!), mentre rispondo a qualche mail con il computer sulle ginocchia. Finito il lavoro mi passa per la testa di digitare a caso una serie di nomi che traggo dai protagonisti dello schermo, scegliendo la ricerca per immagini di Google... vengono fuori foto incredibili, allora provo ad inventare io dei nomi... a caso..., nomi inglesi, americani... L'idea è da "sociologi senza metodo", ma i risultati della ricerca casuale sono veramente interessanti... come dimostra la foto ottenuta inventando il nome di "Dorothy Smith".




venerdì 30 novembre 2012

LE OCCASIONI



Festa di compleanno.
Comincio con qualche scatto a caso, tra gli amici che chiacchierano, i bimbi che giocano, le persone più anziane sedute a circoletto con un occhio buttato lì a riprendere qualche bimbo più incauto che rischia l'osso del collo, mentre la mamma del bimbo, distratta, è occupata a godersi la compagnia di un coetaneo col quale discorrere, comunque, del figlio, novanta su cento.
Poi è la volta dell'apertura del regalo dell'amico appena arrivato, del "giullare" del gruppo che decide all'improvviso di smuovere un po' il clima... clima che non aveva alcuna intenzione, in realtà, di passare da rilassato a concitato...  Sono queste le foto più buffe, quelle che riprendono soggetti rimasti con la bocca aperta, con la mano a mezz'asta... foto che necessitano del commento di un presente allo scatto, altrimenti risultano incomprensibili...
Riprendere le mise, le cibarie, le coppie, fino al momento fatidico della torta.


Questa foto è tratta dal sito calabrese di un'associazione culturale (http://www.borgochianura.it/) che riserva alle foto una parte davvero interessante, con tante categorie nella sezione album foto degli amanteani (musicacalciosiccatiil temposcuolaamiciabenadicaper manolavorocapellonifratelliamicigemellibelli,spionifavoriteconfraternitesoldatipeggiosoprannomistrada foto,  sposicoppieviciniluttogiovaniauto-motocostumi da bagno).
Consiglio a chiunque sia interessato alle foto d'archivio di visitarlo...
Aspetto considerazioni sulle classificazioni ed i soggetti.

lunedì 1 ottobre 2012




PARTICOLARI
FOTO DI PRIGIONIA



Zio Umberto mi ha lasciato in eredità un mare di consigli saggi, tipo: “Ci si abitua a tutto”, e ne aveva ben donde. Con la stessa divisa, ugualmente inadatta, aveva affrontato da prigioniero sia il freddo della Russia che il caldo africano, approdando poi in Arizona. È comprensibile che nella seconda parte della sua vita non amasse molto viaggiare.
Tra i tanti ricordi e le poche cose che aveva portato con sé dopo la guerra e la prigionia spiccano due giornali. Il primo “The Sand Storm” è un vero e proprio giornale fotografico, una sorta di depliant dal quale si evince che i prigionieri americani, poiché si diventa proprietà del popolo che ti raccatta, vengono trattati come se fossero in un campo estivo.

Accanto alle foto  con ufficiali e segretarie dall’aria rassicurante e sorridente, vi sono un odontoiatra all’opera, farmacisti, un beccaio nel frigo che seleziona quarti di bue giganteschi destinati a sfamare gli affamati della guerra, elettrauto e pasticceri… tutti alacremente all’opera alcuni da militari altri da prigionieri. Il giornale è composto esclusivamente da foto in bianconero. Riesce bene nell’intento di fornire un aspetto umano a chi potrebbe con ben altri atteggiamenti occuparsi del detenuto per guerra.
 Anche le pose militari, paradossalmente, mi sembrano più rilassate, come se fossero lì veramente a garanzia della pace… del campo di prigionia. Ma credo di essere fortemente influenzata dal ricordo di zio Umberto che visse quel periodo quasi come felice dopo l’orrore che aveva attraversato i suoi occhi in special modo in Africa. Non so come avesse fatto in sei anni ad attraversare tutti quegli spazi… so però che quella americana dovete apparirgli come un’insperata oasi.

D’altra parte ricollocati anche in un lavoro che non fosse “forzato” dovette sembrargli un miracolo, come quello di poter aver a che fare con la farina: lui che è stato pasticciere tutta la vita. Di questo giornale fotografico che conservo gelosamente quasi che possa sbiadire al punto di non riconoscerne più neanche le immagini bianconero mi rimane particolarmente impresso l’odore che è lo stesso di mio zio, passato a miglior vita oramai da più di quindici anni. Ma poiché questo blog si occupa di fotografia ed è su questa che mi piace girare intorno e lavorare sottopongo alla vostra attenzione un dettaglio comune a quasi tutte le immagini che riguardano i prigionieri, ma che mi fa particolarmente soffrire per i detenuti-musicisti:




Nessuno ha diritto alla faccia. Persino il suonatore di fisarmonica è pietosamente piegato su se stesso per non offrire il volto alla macchina fotografica. Certo la mente corre a quelle immagini, ben più tristi dal momento che ritraggono militari senza scrupoli che adoperano il prigioniero come la fiera ottocentesca cacciata dal colono. Uomini che adoperano il ritratto fotografico a testimonianza e trofeo della propria supremazia e della propria ferocia inferta ad un prossimo disarmato.  Ciononostante quest’orchestrina mi fa venire le lacrime agli occhi. Forse zio Umberto sarebbe più bravo a spiegare perché.

lunedì 30 luglio 2012

Cosa ne saprebbe la maestra di Udine della guerra se non fosse documentata anche dalle foto di chi LAVORA LAVORA LAVORA giorni e giorni per raccontarla attraverso le immagini? Cosa ne saprebbe il fabbro di Oristano della fame del mondo, della lotta tra etnie africane, della siccità se qualcuno non si appostasse per catturare con l'obiettivo l'immagine capace di catturare l'attenzione in mezzo a dieci milioni di altre immagini?
Com'è bello poter votare l'ingiustizia di una foto "crudele, si badi bene crudele per un contenuto che è solo "ritagliato" e non provocato da chi la scatta, belli comodi alla scrivania di casa propria...
Eppure di quelle foto tutti si cibano per denunciare lo scandalo!!! In quanti blog hanno pubblicato la foto questa foto scattata per offrire forza alla propria denuncia? Prima di dare voti facili pensate seriamente.

(La foto fu scattata l’8 giugno 1972 a Trang Bang, a pochi chilometri da Saigon, dopo un bombardamento aereo con bombe al napalm. La bimba che fugge terrorizzata è Kim Phuc, allora aveva nove anni. Oggi Kim vive in Canada, è ambasciatrice della pace per l’Unesco e dirige una fondazione per aiutare i bambini vittime di guerra. La foto fu scattata da Nick Ut e gli valse il premio Pulitzer.)
Oggi il Corriere della Sera promuove un sondaggio:

Fermi a fotografare chi chiede aiuto

Dalle violenze in casa ai bimbi denutriti: davanti a persone che soffrono è giusto che un reporter non intervenga?

Dal nostro inviato DAVIDE FRATTINI
TEL AVIV - La bimba striscia incurvata dalla fame, cerca di raggiungere un centro di aiuto, è il Sudan annientato dalla carestia. Un avvoltoio la pedina, prende tempo: se la piccola perde, lui vince. Kevin Carter passa mezz'ora con l'obiettivo puntato sulla scena, l'indice pronto a scattare, spera che l'uccello apra le ali, vuole ottenere un effetto ancora più drammatico. «Ho aspettato e aspettato, alla fine ho fatto la foto, ho cacciato via l'avvoltoio con una pedata e me ne sono andato». L'immagine viene pubblicata sulla prima pagina del New York Times, nel maggio del 1994 Carter vince il Pulitzer, quella bambina diventa la sua ossessione. Perché tutti vogliono sapere se sia riuscita a salvarsi. «Non ne ho idea, me ne sono andato sotto un albero a piangere, parlare con Dio e pensare a mia figlia», risponde il reporter sudafricano. Lo accusano di essere lui il predatore. Due mesi dopo aver ricevuto il premio che potrebbe spalancare la sua carriera, Carter decide di chiuderla. Lascia un biglietto sul sedile del pick-up rosso dove si uccide: «Sono perseguitato dai ricordi degli omicidi e dei cadaveri e della rabbia e del dolore... dei bambini affamati o feriti, degli uomini folli dal grilletto facile, spesso la polizia, dei boia».
Fermi a fotografare chi chiede aiutoFermi a fotografare chi chiede aiuto    Fermi a fotografare chi chiede aiuto    Fermi a fotografare chi chiede aiuto    Fermi a fotografare chi chiede aiuto    Fermi a fotografare chi chiede aiuto
ATTACCHI KAMIKAZE - Ci sono incroci a Tel Aviv che Ziv Koren cerca ancora di evitare, bar dove non è più tornato. Nel 2000 il World Press Photo ha decretato uno dei suoi scatti tra i 200 più importanti degli ultimi 45 anni: la carcassa di un autobus sventrata, l'attentato è appena avvenuto, i volti contorti dall'esplosione ancora riconoscibili. «I ricordi delle bombe sono troppo resistenti. Attorno al mio appartamento ci sono stati otto attacchi kamikaze e io correvo lì pochi minuti dopo. Ma il lavoro non è riuscito a distruggere il mio rapporto con la città, come le cicatrici non cambiano il rapporto con il tuo corpo». Il Guardianha indagato le ferite che i fotoreporter si portano dentro, i rimorsi per aver continuato a fare il proprio lavoro mentre qualcuno lì attorno viene ucciso o massacrato di botte. «La sensazione - spiega Greg Marinovich, amico di Kevin Carter, al quotidiano britannico - è di essere stato un vigliacco, di non essere intervenuto».
TESTIMONIARE - A Koren è successo nella Città Vecchia di Gerusalemme, seconda Intifada. «Mi sono trovato in mezzo all'assalto contro una garitta di soldati israeliani. Centinaia di palestinesi, sentivo le urla dei militari, chiedevano aiuto, non avrei potuto fare nulla, sarei diventato io stesso un bersaglio». Considera testimoniare più importante che intervenire: «È il nostro compito. La foto di Carter ha denunciato quello che stava succedendo in Africa, ha fatto di più per quei bambini di qualunque organizzazione non governativa». Negli ultimi venti mesi Loris Savino ha inseguito le rivolte arabe per il progettoBetweenlands. «Quando pensi di poter dare una mano lo fai - commenta Savino, in Israele con il videomaker Marco Di Noia -. Sono stato a lungo nei ghetti di Nairobi, assieme ai bambini di strada che sniffano la colla. Abbiamo comperato le medicine per loro, ma non è il ruolo di un fotoreporter. I volontari ci dicono: siete degli squali. Il nostro lavoro è documentare, aiutare con le storie che raccontiamo. Non possiamo diventare dei missionari».

venerdì 8 giugno 2012

LE RAGIONI DELLO SGUARDO

Sono alle pagine finali de "Le ragioni dello sguardo" di Francesco Faeta (Ed. Bollati Boringhieri)www.visualanthropology.net/libri.php, ultimo libro dell'antropologo verso il quale ho un debito molto alto dal momento che spesso le sue pagine sono state fonte di ispirazione e, più spesso, di soluzione di dubbi e percorsi di ricerca. Un libro che consiglio di leggere a quanti vogliono capire gli stretti legami tra l'antropologia e la fotografia.
Tra i tanti passaggi che mi hanno conquistata ne scelgo uno:

"...mentre si ricorda si rappresenta, mentre si osserva si ricorda, mentre si rappresenta si osserva. E le attività di sguardo antropologicamente connotate, ancora, concernono sia i mondi osservati, sia quel particolare tipo di costruzione culturale, che è la scienza sociale", op. cit. p.20.

Questo di Faeta è un libro raro che mette insieme i suoi percorsi di antropologo e di uomo, racconta la storia della disciplina antropologica nei suoi scatti, o meglio negli scatti dei suoi autori più famosi e nello stesso tempo ritrova negli scatti di anonimi, la storia dell'oggetto dell'antropologia: gli uomini.
Con riluttanza leggo le sue pagine finali... mi mancherà. Non mi resta che sperare in una prossima, vicina, pubblicazione.

mercoledì 11 aprile 2012

Morte in Foto

Non solo per Ferdinando II, re delle Due Sicilie, ma anche per gente comune, in special modo negli anni Cinquanta, l'attestazione dell'avvenuto decesso era certificata da una foto del malcapitato sul letto di morte.

Ferdinando II RE delle Due Sicilie (da Wikipedia)


Luogo e data della ripresa: Milano (MI), Italia, 1950
Materia/tecnica: gelatina bromuro d'argento/vetro
Misure: 10 x 15
Collocazione: Milano (MI), Regione Lombardia, fondo Studio Tollini, TLI_144_LS_DQ
Genereritratto
Compilatore: Ginex, Giovanna (2001)
Referente scientifico: Ginex, Giovanna
Funzionario responsabile: Minervini, Enzo

Nel corso di una ricerca svolta in Campania agli inizi degli anni Novanta classificammo, con l'antropologa napoletana Silvana Chianese, una quantità di fotografie relative al letto di morte, ma pure interi album fotografici che venivano dedicati alla morte come al matrimonio. Si trattava di raccolte che rendevano conto del letto di morte, del corteo funebre, della bara in chiesa e di un vero e proprio corredo di prefiche e parenti piangenti. Tra gli album ritrovati ce n'erano diversi risalenti anche alla fine degli anni Ottanta. Il senso di queste raccolte fotografiche? Rendere omaggio alla memoria dello scomparso, ma pure certificare l'importanza che per la famiglia aveva quella morte.
Il tiro a otto, il tiro a sei, la qualità e il numero delle corone, la presenza di notabili nel corteo, di prefiche, di familiari disperati... tutto era attestato nelle foto degli album e rimarcato ogni volta che una pagina lasciava il posto alla successiva da chi ci raccontava la storia di quel funerale. Sì, perché sostanzialmente gli album fotografici servono a raccontare la storia. "Questo è il vedovo... guardate nel corteo c'è anche l'amica della moglie che avrebbe sposato qualche anno dopo..."; "Quello è il vecchio parroco, quello che fece suonare la banda quando morì il bambino del fattore sotto l'aratro..."
E via così.
Esiste poi un'altra foto di Morte. Più intima, più personale. Si tratta della "pagellina". Si usa portare questa fotografia nel portafogli, nella borsa, nel cassetto, intrattenendo con essa una relazione più stretta, utilizzandola come costante riferimento al defunto. 
Quella ricerca: "Di fronte alla Morte. La foto come sistema di superamento della crisi e rifondazione della presenza", conta oramai quasi vent'anni. I suoi esiti dimostrarono come la foto di morte, in quanto rito nel rito, si imperniava attorno al paradossale desiderio di mantenere il legame di fronte alla morte e di assicurare il predominio della volontà di vita sulla tendenza a disperdersi. Il rito permette ai sopravvissuti non solo di gestire l'evento morte, ma di risollevarsi da quel senso di generale disorientamento in cui la morte li ha fatti precipitare. La foto di morte come rito nel rito, appunto, riveste per i sopravvissuti un'importanza tale da renderne difficile sia il reperimento che la riproduzione. Molti si sono lasciati convincere a prestarci le loro foto allo scopo di riprodurle per la Federico II, solo per interposta persona e dopo parecchie insistenze. D'altra parte anche io e Silvana avvertivamo un certo disagio a "sezionare" le foto, a parlarci attorno, ad estrapolarne informazioni, considerato che erano foto di morti e di loro parenti disperati... ci sembrava di violarne "l'intimità", di rubare qualcosa che apparteneva ad altri, al loro dolore, al loro cordoglio. Anche le domande che ponevamo agli intervistati, di regola parenti prossimi dei protagonisti delle foto, ricevevano risposte infastidite, spesso stringate.
A supporto della ricerca ci piaceva ripetere le sagge parole di Roland Barthes: "... bisogna pure che in una società la Morte abbia una sua collocazione; se essa non è più (o è meno) nella sfera della religione allora dev'essere altrove: forse nell'immagine che produce la Morte volendo conservare la vita". (da La Camera Chiara. Nota sulla fotografia, Torino, Einaudi, 1980).

sabato 24 marzo 2012

Il fotografo ambulante

I fotografi ambulanti macinavano chilometri e chilometri, spesso sul dorso di muli, forniti di fondali dipinti, di un set formato dall'immancabile treppiedi e della macchina a chassis, per raggiungere paesini sperduti, a volte case sparse sulle colline, tra le montagne, in mezzo a distese di verde... pur di raggiungere papabili clienti. Questi clienti si presentavano in forma compatta: la famiglia intera riunita si premuniva di indossare l'abito della festa, posizionando le sedute in maniera tale da rispettare la formazione di "importanza" all'interno del gruppo; la faceva franca solo l'ultimo nato, che non reggendosi in piedi da solo finiva per trovarsi al centro in braccio alla madre.

Questo tipo di foto pur nella sua ingenuità già all'epoca, parliamo di una foto appartenente agli inizi del 900, dava al soggetto la possibilità di essere in un luogo "diverso". Il fondale dipinto, ma anche un lenzuolo od una coperta nei casi in cui il fotografo non fosse fornito di quelle splendide pitture corredate di colonnine, scaloni di marmo e panoramiche terrazze, consentivano al soggetto di essere trasportato metafisicamente in un posto più dignitoso, meno povero.
Ma il ciglio della strada, il contesto generale che la foto non esclude non rende comunque evidente la piccola truffa? Probabilmente i soggetti sono troppo ingenui per accorgersi anche di questo dettaglio: l'importante è essere tutti vestiti bene e con le scarpe ai piedi.

In realtà anche la foto in studio in quegli stessi anni si giovava di fondali dipinti e tavolini ai quale poggiare gomiti in eccedenza, ma per la sua ingenuità e per le facce seriose dei soggetti, quella in strada mi ha da sempre conquistata di più.

Quante volte prima di accontentarci dello scatto cambiamo le pose e gli sfondi. A modo suo anche questa foto lo fa. Consente ai soggetti di essere "al meglio", dal loro punto di vista, chiaro. Mi sembra che la foto abbia da sempre assolto alla funzione di "specchio del reame". Probabilmente non per la sola vocazione al ritratto, per il quale, d'altronde è sempre stata largamente utilizzata, ma proprio per la possibilità di specchiarci in essa meglio di come siamo, di come ci vediamo. Proprio per questo la famiglia intera, oltre che il singolo, doveva essere in pompa magna: per dimostrare al mondo la sua "buona" condizione. Allo stesso scopo vi sono una serie di immagini risalenti al primo conflitto mondiale, in cui negli studi fotografici appaiono solo le donne con figli. Sono foto destinate al padre militare in guerra, foto che spesso annunciano meglio di qualunque scritto, ad esempio, che il figlio atteso è arrivato, che i più grandicelli stanno bene e che la moglie lo attende. Tutte queste cose? sì. La foto è tutte queste cose.
Alberto Baldi, professore di antropologia presso la Federico II, ha scritto tanto e bene a proposito di questo genere di foto, in particolare sulla fotografia lucana, e per suo conto nel 1995 mi trovai a svolgere una ricerca in Basilicata sui fotografi d'archivio. Il Centro Dipartimentale per lo Studio della Cultura Popolare, dell'Università di Napoli Federico II, ha un archivio molto fornito di tali immagini. Si tratta di una raccolta di valore demologico inestimabile capace di raccontare la storia della famiglia, dell'emigrazione, della vita e della morte, delle tradizioni religiose e di quelle pagane della Basilicata. Baldi aveva scovato una raccolta di stampe da dagherrotipo di oltre cento fotografie. Del fotografo che le aveva scattate, però, non sapevano nulla se non della sua origine melfese. Con una collega antropologa, Silvana Chianese, facemmo tappa a Melfi. Dopo varie infruttuose visite un'insegnante della scuola elementare che collaborava con il Centro ci accompagnò
da un'anziana parente. La signora aveva 92 anni. Le mostrammo le stampe sperando che riconoscesse qualcuno nelle immagini. Erano tante. Nello sfogliarle la signora sorrideva e annuiva. Con le lacrime
agli occhi ci indicò in un gruppo familiare una neonata, vestita con l'abito in fasce lungo oltre i piedi che si metteva ai bimbi il giorno del battesimo. Una cuffietta bianca completava l'abbigliamento. Con dolcezza e commozione ci disse: "Quella bimba ero io". Non dimenticherò mai quel momento. Mi sentivo meglio di Colombo! Avevo le lacrime agli occhi anch'io mentre la signora dava nomi e storie a tutta la collezione, fotografo compreso.
Da quel giorno ho capito che nessun lavoro nella vita mi avrebbe potuto dare di più di quello dell'antropologia.

domenica 8 gennaio 2012

La foto-ricordo!

Un'amica mi ha proposto un'immagine nella quale eravamo abbracciate alla festa di una terza amica.
Mi sono rivista nel gruppo, ho riconosciuto il vestito, sorriso della pettinatura e considerato che ero cambiata parecchio... ma se non avessi rivisto la foto mai per me ci sarebbe stato quel momento. Non ci sarebbe stato non solo nel senso che mai mi sarebbe venuto di rievocarlo (non accadde nulla che abbia reso memorabile la circostanza!), ma perché i dettagli di quella circostanza non sarebbero stati presenti tutti insieme. Avrei forse ricordato della pettinatura corta e sbarazzina del periodo, osservato che vent'anni fa, quando ero agli inizi dell'esperienza universitaria portavo spesso i calzoncini, e un insieme di altri particolari, ma mai mi sarei rivista così.
Grazie alle fotografie riusciamo a ri-vederci, ma anche a vedere quanto siamo cambiati, troviamo le espressioni, le facce, i corpi delle persone che eravamo. Non sempre questa è un'esperienza piacevole, anzi spesso sembra che fossimo proprio buffi e sembra strano che nessuno ridesse al nostro passaggio in strada! Trovo, poi, che la foto a colori sia particolarmente impietosa rispetto a quella in bianco/nero e che solo la patina della memoria salvi le vecchie foto. Il numero crescente di fotografie scattate, poi, ha di molto peggiorato la qualità dei soggetti! Intendo dire che negli anni Settanta, quando i fotografi erano tanti ma certo non ti fotografavano ogni momento come oggi, ancora era fatta salva una certa dignità dei soggetti. Eri vestito in maniera decente quando ti fotografavano. Era una circostanza in qualche modo "sensata". Non rischiavi di vederti immortalato mentre addentavi una fetta di salame a cena da tua sorella.
Le foto degli anni Ottanta, poi, non so perché mi sembrano particolarmente scialbe. Sembriamo tutti fuori posto. Provate a fare una ricerca su Google di foto anni Ottanta ... sembra che tutti  i barbieri fossero in sciopero e che indossare abiti lisi sia di moda! Solo i VIP erano patinati e i capelli cotonati per ore vivevano una vita propria! Ma quanto erano fighi i DURAN DURAN, capelli cotonati compresi.

domenica 1 gennaio 2012

BUON 2012!!!!



In genere ci rimangono nella mente immagini che sottolineano la durezza e la crudeltà della vita. Anche passati anni ricordo molto bene  le centinaia di occhi di bimbi africani che mi hanno rubato l'anima mentre chiedevano di essere adottati a distanza, o quelle che nella loro immediatezza raccontano di un gesto disperato ed orgoglioso, come quella del ragazzo solo davanti ai carri armati di piazza Tienanmen, od ancora quella della bimba vietnamita che avanza piangente e nuda... 
Nei miei ricordi per immagini, poi, ritorna spesso una foto che fu mostrata da Mino Damato in una puntata del Maurizio Costanzo Show e che ritraeva sua figlia adottiva Andreia nell'atto di porgere il viso al sole e che per lui racchiudeva tutta la felicità del mondo (1). Un'immagine che mi colpì moltissimo non solo per la bellezza della bambina e del vento che le portava alti i capelli, ma perché era stata preceduta da altre che mostravano la stessa bimba all'inizio della sua conoscenza con Mino, quando i segni della malattia che se la sarebbe portata via, l'Aids, erano molto evidenti.
Ebbene questa foto che vi mostro, rubata ad un altro Blog sull'argomento Ninna-nanne, mi ha subito fatto sorridere... mi ha invitato per questo nuovo anno ad una collezione di immagini che abbiano come riflesso incondizionato e sotterraneo una inevitabile felicità!!


Auguri... Barbara.






(1) Mino Damato, classe ’37 e originario di Napoli. E’ stato coraggioso inviato di guerra per la Rai e conduttore di molte trasmissioni, tra le quali ricordiamo Domenica In (celebre la sua camminata a piedi nudi sui carboni ardenti) e Incontri sull’Arca, di cui è stato anche autore. Passionale e idealista, Mino, durante la sua vita, si è impegnato a migliorare quella di bambini abbandonati e malati di Aids, impegno che si è trasformato in uno slancio di puro amore, quando adottò Andreia, di origini rumene, morta nel ‘96 a soli sei anni. L’incontro di Mino con il dolore e la sofferenza dell’infanzia lo ha portato a fondare l’associazione Bambini in Emergenza, alla quale si è dedicato con incessante devozione fino agli ultimi giorni della sua vita.